Una vita da precario. Alessandro Munari, titolatissimo avvocato d’ affari milanese, ha battuto forse un record. Per trent’ anni ha insegnato all’ università, ha tenuto corsi affollati, ha seguito tesi e sfornato libri e saggi. Ma sempre come incaricato. Un piede dentro e un piede fuori. Provvisorio a vita, in attesa della promozione come Vladimiro ed Estragone di Godot nella commedia di Beckett.

Poi ad agosto scorso la sorpresa. Quasi metafisica dopo un’ eterna attesa: «Mi hanno comunicato che avevo vinto il concorso e avevo ricevuto l’ abilitazione scientifica nazionale». All’ età di 59 anni, quando gli altri magari iniziano a pensare alla pensione, la sua carriera accademica può finalmente decollare.

«E ora posso cercare in giro per l’ Italia una cattedra, come professore associato di diritto commerciale». Forse, un altro stapperebbe la bottiglia di champagne messa in frigo nel lontano 1989, quando c’ erano ancora il pentapartito e la diarchia Craxi Andreotti, quando l’ Italia era una potenza rampante con gli ormoni dell’ ottimismo in circolo e il Muro di Berlino veniva preso a picconate.

Ma Munari ha altre idee: «Sono felice, ma provo anche un misto di tristezza e indignazione perché trent’ anni di anticamera non hanno senso. E ritengo che questa non sia solo la mia vicenda». Il problema è che il curriculum chilometrico in questi 30 anni è servito a poco o nulla. Sei libri, una cinquantina di saggi e articoli. E ancora il corso di diritto commerciale alla Cattolica, una calamita che attrae oltre 400 studenti.

«Ma poi andavo ai concorsi e mi bocciavano sempre – riprende l’ avvocato – mi ricoprivano di elogi e complimenti, ma al dunque c’ era sempre qualcuno che arrivava prima di me. Perché io non appartengo a camarille, cordate e conventicole, perché sono insofferente alle raccomandazioni e non ho padrini. E questo, vorrei precisare, non significa che sia una sorta di cavallo pazzo o di studioso un po’ naif o, peggio, un iconoclasta antisistema.

No, semplicemente ho sempre coltivato insieme alla ricerca, l’ indipendenza. Ho sempre fatto di testa mia e intanto ho sviluppato l’ attività professionale». L’ incipit. Con il padre, Sergio Munari, poi diverse tappe. La collaborazione con solisti del calibro di Alberto Porro e Vittorio Dotti, per lunghi anni il civilista di Silvio Berlusconi, poi la partnership con Francesco Gatti e infine, scommettendo su un futuro che è già presente, lo studio formato boutique Munari Cavani.

«È stata una bellissima carriera forense, piena di soddisfazioni. In parallelo venivo implacabilmente bocciato, un concorso dopo l’ altro. Partivo sempre favorito, poi c’ era sempre qualche allievo da sistemare, qualche poltrona da assegnare a questo o quello negli equilibri universitari, qualche allievo di qualcuno che spuntava all’ orizzonte, come un Ufo, e doveva avere la precedenza. Ci sono rimasto male, le prime volte. Non capivo. Poi ci ho fatto l’ abitudine».

Munari allarga le braccia: «La bella notizia è che ho vinto, la cattiva notizia è che ce l’ ho fatta dopo un’ esistenza in bilico, senza certezze. E, lo dico senza arroganza e anzi con molta sofferenza, non credo sia un bel messaggio per i giovani che hanno talento e vogliono buttarsi nella mischia. La domanda che mi faccio è semplice come dovrebbe essere questo Paese così contorto: conta di più il merito o le relazioni?».

Le energie, anche le migliori, spesso rimangono fuori dai circuiti che contano. Munari le sue le ha convogliate in mille attività come una specie di vulcano calmo e organizzato, ma mai fermo, l’ inquietudine che bolle sotto la faccia tranquilla. Il lavoro. La didattica con i ragazzi. La casa editrice che produce testi specialistici. Gli incarichi di peso, compreso un posto nel cda del Giornale.

La chitarra classica, altra passione sfrenata dell’ uomo di legge: memorabile il duo con un vicino di casa davvero speciale, Umberto Eco, al liuto rinascimentale. L’ organizzazione del Festival del cinema di Busto Arsizio, con annessa scuola per giovani promesse della cinepresa: la Fondazione Michelangelo Antonioni. A scorrere l’ elenco vertiginoso e trasversale di tante intraprese si può pensare che Munari abbia compresso due o tre vite in una sola esistenza. Dinamismo. Rigore. E coriandoli di creatività. Solo l’ università, che fa scappare all’ estero i cervelli e mortifica spesso gli ingegni più alti, l’ ha tenuto sulla porta, come un mendicante del sapere, per trent’ anni.

Di Stefano Zurlo

 

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