Cosa significa fare cultura oggi? In una città in cui si sono moltiplicate le polemiche sui fondi spesi per gli Eventi in Jazz, che hanno però attirato un folto pubblico, a chiederselo è il principale promotore del Busto Arsizio Film Festival, altro evento su cui ogni anno si dibatte contestando i contributi comunali. Quasi a mettere le mani avanti, il presidente Alessandro Munari invita a riflettere.

«La cultura – chiarisce – non è per forza astratta, contrapposta a ciò che serve per il nutrimento fisico. Cultura è sì l’altra parte della nostra entità, nutrendo l’anima, ma non è vero che non aiuta a mangiare.

Carmina non dant panem, dicevano i latini, ovvero la poesia non aiuta a mangiare, in realtà la poesia ti offre la possibilità di procurarti il pane, nella realtà in cui operi e ti confronti. Ti offre uno specchio».

Non contrapponiamo il jazz al cibo che manca a chi è in difficoltà: è così?

«Esatto. Cinema, scuola e arte, tutto quel che mettiamo insieme nel Baff va al di là di questo confronto. Ma se ragioniamo in quell’ottica, non si fa più niente. Io credo che ogni bilancio istituzionale sia per il 99,5 per cento dedicato ad altre cose, lasciamo quello 0,5 alla cura dell’anima e alla crescita della consapevolezza e della coscienza sociale. Credo che il dibattito con registi e grandi interpreti di film stimoli questa riflessione».

Ma il Baff non vive una sola settimana…

«No, ormai sono dedito al festival per il 60 per cento del mio tempo. C’è una rete più generale che confluisce in quella settimana, c’è un day by day legato ai cinema d’essai, ai cineforum: il loro alto numero è uno dei tanti primati di Busto Arsizio. La gente si confronta su temi sociali, familiari, di relazioni. Quello 0,5 per cento è destinato a cose importanti. Prendiamo esempio da altri…».

A chi si riferisce?

«L’India, paese da un miliardo di persone, ha calcolato il suo Prodotto culturale interno, una sorta di Pil della cultura. Se ragionare sul Pil in tutti i continenti mette in crisi, avere la consapevolezza che il proprio prodotto culturale è notevole rappresenta una grande consapevolezza. L’India rivaluta così la sua tradizione millenaria che ha influito su filosofia e arti. Quel valore è di gran lunga superiore al Pil».

E l’Italia?

«Avrebbe un Prodotto interno culturale pazzesco: possediamo il 70 per cento del patrimonio artistico mondiale, siamo culla della cultura da tutti i punti vista. È un valore infinito: un economista, Umberto Sulpasso, ha calcolato il Prodotto Nazionale Sapere, che va al di là della produzione di manufatti e acciaio, ma tiene conto della nostra alta vocazione turistica e culturale. Raccoglieremo le riflessioni in un libro che uscirà prossimamente».

Allora, vale la pena investire in cultura?

«Se ne accorge anche il mondo dell’economia. Dobbiamo tenerlo presente anche nelle nostre piccole realtà locali. Facciamo cose apprezzate da operatori sofisticati: nelle serate di jazz la gente si prendeva a cazzotti per entrare. C’era una risposta notevole, come al Baff. Non si buttano soldi per il cinema, inoltre parliamo di cifre marginali rispetto al bilancio. In Italia ci sono 113 festival dedicati alla settima arte, siamo onorati di essere fra i primi cinque, accanto ai più blasonati Venezia, Roma e Bari, città ben più grandi della nostra Busto. Ci raffrontiamo con entità che ottengono milioni, noi con poche decine di migliaia di euro (ancora meno del jazz) diamo vita a un valore importante».

Contano soprattutto gli sponsor?

«Certo, copriamo le spese con gli sponsor che io e l’associazione Amici del Baff coordinata da Gigi Farioli cerchiamo. Il Baff, partito dalla provincia, si è creato una posizione per i suoi addentellati di carattere culturale. Quanto ci dà il Comune viene riversato quasi al cento per cento sul territorio. Noi non paghiamo nessun ospite, mentre ci sono tariffe di ospitalità per vari festival. Qui vengono per interesse culturale, per portare avanti un progetto. Noi abbiamo camere da 40 euro e pranzi da 15 euro caffé compreso. Sembra che viviamo tra le paillettes, non è così. Non pagando gli ospiti, usiamo i soldi per la struttura in piazza San Giovanni, il resto si riversa su bar, ristoranti e fornitori del territorio. È una partita di giro: creando cultura ridoniamo benefici alla comunità».

Lo stesso vale per il jazz?

«Gigi Marrese, direttore artistico di quel festival, era abbacchiato a sentire le critiche. Anche lui sa dimostrare fino all’ultimo centesimo dove vanno i soldi, che non vengono “buttati via mentre la gente muore di fame”, come dicono alcuni. Noi come loro riusciamo a fare nozze coi fichi secchi, vorremmo riguardo e affettuoso rispetto per chi fa così tanto per la città dandole rilievo a livello nazionale e internazionale».

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