L’inchiesta di Fanpage, che ha riportato prepotentemente all’attenzione dell’opinione pubblica e della politica la questione della corruzione nel sistema di smaltimento dei rifiuti in Campania, ha aperto una profonda e lacerata discussione sull’opportunità di condurre un’inchiesta giornalistica utilizzando come “esca” o “grimaldello” un terzo provocatore, nella fattispecie un ex camorrista, ora pentito e collaboratore di giustizia.

Alla massima convergenza sui tragici e purtroppo non inaspettati risultati del servizio svolto da Fanpage hanno fatto da contraltare le opinioni sulla liceità dell’inchiesta o meglio dei metodi utilizzati a tale scopo. Come per ogni tema “caldo” dal punto di vista giornalistico (si veda ad esempio la pubblicazione delle intercettazioni o dei fuori onda di ospiti in attesa del collegamento), anche sulla utilizzabilità di un cosiddetto agente provocatore, gli addetti ai lavori si sono divisi tra garantisti e coloro che sono per pubblicare tutto, sempre, subito e comunque.

Lungi dal voler giudicare le scelte editoriali degli uni e degli altri, proviamo a chiarire sotto il profilo giuridico la figura dell’agente provocatore e dell’infiltrato – che non sono giornalisti – ed i principi che regolano l’attività di inchiesta giornalistica, anche deontologici, al fine di comprendere se esistono, e quali sono, i confini dell’informazione.

Ogni scoop giornalistico tanto più è prorompente tanto più provoca interrogativi e divisioni: il metodo dell’inchiesta; le tempistiche della sua pubblicazione; le possibili interferenze con attività già avviate dagli inquirenti. Domande lecite che tuttavia trovano risposte divergenti con il risultato, altrettanto antitetico, di sdoganare e celebrare sempre e comunque forme di giornalismo spregiudicato ovvero di imbavagliare e comprimere l’informazione sacrificando il diritto dei cittadini ad acquisire conoscenza di tematiche meritevoli per il loro rilievo pubblico.

L’informazione utile al cittadino e alla crescita della sua coscienza sociale e del suo bagaglio culturale è un’informazione che rispetta e garantisce la legalità, che non commette reati o illeciti al fine di denunciarne altri, commessi da altri, seppure di natura più grave di quelli legati all’informazione.

Problematiche che non coinvolgono solo testate e giornalisti, ma quanto agli effetti anche e soprattutto i lettori e lo Stato, sempre più sfiduciato dai cittadini e messo a nudo nella sua (in)capacità di intervenire a loro tutela.

In una democrazia liberale la giustizia penale serve a perseguire e punire coloro che hanno commesso reati, fatti socialmente dannosi, non coloro che si mostrano propensi a compierne. La giustizia penale (come peraltro quella civile) per quanto assai bisognosa di riforma per tornare efficiente ed efficace a partire dalle sue tempistiche, ha una ritualità e una prassi virtuosa non casuali, proprio a garanzia e tutela del giusto processo.

La normativa vigente sull’agente provocatore, di cui l’Italia si è dotata in tempi relativamente recenti, nel 2006 adottando il cosiddetto “statuto delle operazioni sotto copertura”, ratificando la Convenzione e i protocolli della Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale, è frutto delle nuove metodologie investigative e dello sforzo di ridurre ad unità tutte le singole legislazioni di settore che contrastano specifici settori criminali.

L’utilizzo dell’attività undercover trova applicazione solo riguardo a determinate fattispecie investigative (traffico di stupefacenti, ricettazione e riciclaggio, sfruttamento della prostituzione, della pedo-pornografia, del turismo sessuale a danno di minori, terrorismo internazionale) e sempre d’accordo con la polizia giudiziaria e su impulso dell’autorità giudiziaria.

In uno Stato liberale che riflette un concetto di giustizia liberale al fine di prevenire abusi e strumentalizzazioni occorre stabilire in maniera inequivoca modalità e circostanze che legittimino il ricorso alla provocazione. La legge italiana, ad esempio, non la contempla per le fattispecie di corruzione, in cui la condotta (attiva) del provocatore e non solo quella del provocato, potrebbe costituire oggetto di reato.

Le figure dell’agente provocatore, dell’istigatore e dell’infiltrato hanno occupato i giudici della Suprema Corte di Cassazione fin dalle prime applicazioni del codice penale definendo il primo come colui che “si camuffa da delinquente per accertare od impedire il crimine in itinere”, il secondo come “colui che opera unicamente per determinare l’altro a un delitto che, senza il suo intervento, non sarebbe stato commesso”, il terzo come “colui che celando la propria identità si inserisce all’interno di organizzazioni criminali allo scopo di scoprirne la struttura, sottrarle risorse essenziali, denunciarne i partecipanti”.

La distinzione non è meramente concettuale, ma si rileva fondamentale al fine di valutare la legittimità dell’indagine stessa e di coloro che vi hanno partecipato.

Un caso pratico: l’agente di polizia che, celando la propria qualifica, riesce ad entrare in contatto con un traffico criminale, al fine di raccogliere prove e/o far cogliere in flagranza i suoi ignari interlocutori, compie un’attività che, per la sua componente di “adesione fattiva” al comportamento criminoso, va ben oltre una ordinaria indagine su fatti commessi o in corso di realizzazione. Il soggetto, lungi dall’operare da semplice infiltrato, pone in essere un contributo da considerarsi a tutti gli effetti in concorso con gli autori del reato. Si pongono due questioni tutt’altro che banali: la prima, sulla possibile punibilità dello stesso provocatore, o comunque del soggetto che abbia posto in essere un contributo concorsuale rilevante; la seconda, sulla responsabilità della persona “sollecitata” a delinquere.

Le risposte della giurisprudenza europea e di quella nazionale non sono univoche.

La costante giurisprudenza della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ritiene violata la clausola del “processo equo” nel caso in cui un soggetto venga condannato per un reato provocato “in senso stretto” dalle stesse forze di polizia, cioè quando il provocato venga in vario modo indotto a commettere un reato che altrimenti (in mancanza di provocazione) non avrebbe commesso. La CEDU sembra dunque profilare una vera e propria “causa di non punibilità” a favore del provocato.

Sebbene il giudice italiano dovrebbe automaticamente adeguarsi alle pronunce della CEDU tale impostazione al momento pare non trovare riscontro nella giurisprudenza del nostro ordinamento in cui l’attività sotto copertura ha sempre avuto il carattere della eccezionalità. La responsabilità del provocatore e del provocato è normalmente riconosciuta dalla giurisprudenza.
In questo quadro le inchieste svolte a fini giornalistici, per quanto finalizzate attraverso l’attività di indagine e ricerca a svelare verità nascoste, non possono ricondursi all’attività investigativa giudiziaria, né godere delle medesime garanzie di legge.

Il giornalismo di inchiesta rappresenta l’espressione più alta e nobile dell’attività di informazione, espressione del diritto insopprimibile e fondamentale della libertà di informazione e di critica, al servizio della collettività la quale viene informata non solo su notizie di cronaca ma anche su temi sociali di particolare rilievo attinenti alla libertà, alla salute, alla sicurezza, alla legalità e a tutti i diritti di interesse generale. Il giornalismo di inchiesta non solo è ammesso ma pure sollecitato quando indica con motivazioni e argomenti logici e coerenti un sospetto di illeciti, con il suggerimento di una direzione agli organi inquirenti o una denuncia di situazioni oscure che richiedono interventi normativi per essere chiarite.

Nel dibattito odierno non è in discussione la legittimità del giornalismo di inchiesta. Oggetto del dibattito è l’approccio deontologico all’inchiesta e alla notizia, posto che il giornalista, nel momento in cui raccoglie le informazioni, deve innanzitutto evitare artifici e pressioni indebite. Le norme che regolano il comportamento del giornalista sono delle vere e proprie norme di legge e attengono al suo rapporto con ciascun membro della collettività. La loro violazione (che è diversa dalle regole di natura etica che determinano conseguenze solo sul piano disciplinare) può portare alla responsabilità civile e/o penale del giornalista medesimo.

Quindi sarà compito dei magistrati giudicare caso per caso quali sono le conseguenze di aver occultato la qualità di giornalista o di non aver dichiarato di svolgere un’inchiesta rispetto al diritto dei consociati di essere informati su un fatto di pubblico interesse.

La questione deontologica – e cito indegnamente un ‘espressione di Indro Montanelli – “sta racchiusa in gran parte, se non per intero, in questa semplice e difficile parola: onestà. E’ una parola che non evita errori … ma evita le distorsioni maliziose quando non addirittura malvage, le furbe strumentalizzazioni, gli asservimenti e le discipline di fazione o di clan di partito. … Un giornalista che si attenga a questa regoletta in apparenza facile facile potrà senza dubbio sbagliare, ma da galantuomo. Gli sbagli generosi devono essere riparati, ma non macchiano chi li ha compiuti. Sono gli altri, gli sbagli del servilismo e del carrierismo – che poi sbagli non sono, ma intenzionali stilettate – quelli che sporcano”.

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